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Da blogger a direttore responsabile in un colpo solo. E senza filtro

Sei hai un blog e qualcuno inserisce commenti diffamatori sotto un tuo post, che tu abbia un filtro o meno, potresti essere condannato per diffamazione. È la amara conclusione che arriva dal tribunale di Varese, dove una ragazza di 21 anni è stata condannata per la presenza, sul suo diario online, di alcuni commenti ritenuti lesivi dell’immagine della responsabile di una casa editrice.

Il giudice ha deciso di applicare alla giovane le norme previste dalla legge sulla stampa 47 del 1948 e dall’articolo 595 del codice penale, quello sulla diffamazione appunto, finendo per equiparare la figura della blogger a quella di un direttore di testata. Un’impostazione che stride con quella che la corte di Cassazione dava nel luglio 2010 con la sentenza 35511, dove si leggeva chiaramente:

né con lo legge 7 marzo 2001 n. 62, né con il già menzionato D.Lsvo del 2003, è stata effettuata la estensione della operatività dell’art. 57 cp dalla carta stampata ai giornali telematici, essendosi limitato il testo del 2001 a introdurre la registrazione dei giornali on line (che dunque devono necessariamente avere al vertice un direttore) solo per ragioni amministrative e, in ultima analisi, perché possano essere richieste le provvidenze previste per l’editoria (come ha chiarito il successivo D. Lsvo). 
Allo stato, dunque, “il sistema” non prevede lo punibilità ai sensi dell’art 57 cp (o di un analogo meccanismo incriminatorio) del direttore di un giornale on line”.

A maggior ragione l’articolo 57 del codice penale non potrebbe valere per un blogger, soprattutto se non esercita alcun filtro sui commenti che arrivano sul suo blog (come nel caso in questione). Tanto che in precedenza anche direttori responsabili sono stati assolti in situazioni analoghe. Il caso più noto è quello dell’ex direttore dell’Espresso online Daniela Hamaui; nella sentenza si leggeva che il commento che l’aveva portata in tribunale “non era un commento giornalistico, ma un post inviato alla rivista da un lettore, automaticamente pubblicato, senza alcun filtro preventivo”.

Tra le motivazioni della sentenza di Varese si legge, invece:

Quanto all’attribuzione soggettiva di responsabilità all’imputata, essa è diretta, non mediata dai criteri di cui agli artt. 57ss. c.pen.; la disponibilità dell’amministrazione del sito Internet rende l’imputata responsabile di tutti i contenuti di esso accessibili dalla Rete, sia quelli inseriti da lei stessa, sia quelli inseriti da utenti; è indifferente sotto questo profilo sia l’esistenza di una forma di filtro (poiché in tal caso i contenuti lesivi dell’altrui onorabilità devono ritenersi specificamente approvati dal dominus), sia l’inesistenza di filtri (poiché in tal caso i contenuti lesivi dell’altrui onorabilità devono ritenersi genericamente e incondizionatamente approvati dal dominus).

Non è certamente idonea a escludere la responsabilità penale dell’imputata la clausola di attribuzione esclusiva di responsabilità agli autori dei commenti contenuta in un “regolamento” di natura esclusivamente privata per l’utilizzazione del sito (gli autori, semmai concorrono nel reato, ma di essi in questo processo non vi è traccia di identificazione, né sono imputati)”.

In pratica, sembra dire il tribunale, che tu sia direttore di una testata registrata o tu sia un blogger, e che nello specifico tu abbia un filtro o meno sui tuoi contenuti è indifferente: se c’è una diffamazione sul tuo sito, da qualunque parte venga, sei responsabile della diffamazione. E in più senza che risulti imputato l’autore materiale del commento incriminato. Uno scenario che farà tremare le vene ai polsi di chi riceve decine di commenti ad ogni post che pubblica e sembra disegnato sull’“amazza blog”, legge che però, per fortuna, non è mai entrata in vigore.

La corte di Varese (in passato protagonista di una condanna per un blog satirico francese accusato di aver diffamato Renzo Bossi) chiude, inoltre, facendo la morale al sistema:

Le conseguenze sanzionatorie dei reati – si tratta di più azioni, unite dall’identità di disegno criminoso – possono essere contenute, in ragione della giovane età dell’imputata e di una sua possibile sottovalutazione delle condotte illecite, frutto di una diseducazione di cui essa stessa è vittima, in un contesto sociale di falsamente proclamata liceità di qualsiasi lesione dell’altrui personalità morale, tanto più se veicolata dai mezzi di comunicazione, scegliendo la pena pecuniaria e applicando a suo favore le circostanze attenuanti generiche, da ritenersi equivalenti alle sussistenti aggravanti”.

Risuonano gli echi dei recenti dibattiti sulla presunta “anarchia del Web”. Il che rende la vicenda, se possibile, ancora più triste.

 

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