Solo una piccola considerazione personale in merito alla modalità con la quale a Mountain View si gestiscono i risultati delle ricerche degli utenti; l’occasione è l’audizione che il presidente di Google Eric Schmidt ha avuto di fronte alla Commissione Giustizia del Senato americano, nella quale ha ribadito che i risultati non vengono manipolati per dare precedenza ai servizi di BigG a meno che essi non vengano ritenuti più utili di altri per l’utente.
Su Wired Martina Pennisi attacca così il pezzo nel quale fa il resoconto dell’audizione:
“Immaginate Google come uno Stato. Un accogliente, servito e funzionante Stato in cui i cittadini non pagano le tasse. Immaginate, come è ovvio che sia, che negli anni sempre più persone decidano di trasferirsi in quest’area e che Google, altro passo ovvio, decida a un certo punto di investire direttamente sul territorio di sua proprietà aprendo negozi, ristoranti e banche che vadano a concorrere direttamente con quelle già presenti e di diversa paternità. È a questo punto che Google viene chiamato da un’autorità sovrastatale a spiegare, o meglio a rassicurare in merito, in che modo gestisce la concorrenza commerciale a Googlelandia: spinge i cittadini verso i suoi esercizi commerciali? In che modo permette o meno a strutture di altri di avere successo? Si comporta correttamente? E, in definitiva, se invece di uno Stato fosse il mondo intero, è giusto che sia Google a decidere cosa funziona o cosa no?”
Io vedo due possibilità: se Google agisce come un privato che fa le regole entro la sua proprietà e manipola ciò che vi passa dentro, allora va rivista la sua posizione di mero intermediario quando qualcuno commette reati sulle sue “reti”. Se no, se vuole rimanere intermediario, mero fornitore degli spazi di quello “stato” di cui parla la Pennisi, deve concorrere con i suoi “cittadini imprenditori” alla pari. Soprattutto perché guadagna grazie al fatto che quei cittadini disseminano di dati le sue “strade”, che vengono inoltre ricoperte di pannelli pubblicitari.