Articoli con tag Diffamazione

Condannerete Zuckerberg per il mio status

Se si condanna un blogger per commenti “fuorilegge” postati da terzi con l’argomento che il blogger stesso ha una responsabilità diretta in quanto titolare dello spazio (Varese prima, Roma poi) a prescindere dal reale controllo o filtro esercitati e dal ruolo attivo o passivo svolto dal soggetto si affermano altre pesanti cose di riflesslo.

Ad esempio, che la responsabilità è anche di chi ha messo a disposizione del blogger una piattaforma (Google? WordPress?), e di chi ha dato la possibilità a tutti i soggetti di creare lo spazio, accedervi e postare contenuti in violazione della legge (i provider). Di più, se si chiama in causa nella sentenza un profilo o una pagina Facebook, allora le responsabilità per contenuti diffamatori o considerati apologia di reato se le dovrebbe accollare anche Mark Zuckerberg,o chi per lui rappresenta il social network in sede legale. 

Ultimo, a chi riceve montagne di commenti a post e status non resterebbe che fare una scelta: passare le giornate a scremare contenuti pericolosi, rischiarsela ogni giorno o chiudere i rubinetti della conversazione (prosciugando così l’anima più profonda della rete). Basterebbe questo a palesare la terrificante imponenza dell’attacco mosso da certe sentenze alla libertà di espressione online, ma c’è anche di più: la disciplina europea in materia di intermediazione e le pronunce della Corte di Cassazione. E mi sembra abbastanza.

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Da blogger a direttore responsabile in un colpo solo. E senza filtro

Sei hai un blog e qualcuno inserisce commenti diffamatori sotto un tuo post, che tu abbia un filtro o meno, potresti essere condannato per diffamazione. È la amara conclusione che arriva dal tribunale di Varese, dove una ragazza di 21 anni è stata condannata per la presenza, sul suo diario online, di alcuni commenti ritenuti lesivi dell’immagine della responsabile di una casa editrice.

Il giudice ha deciso di applicare alla giovane le norme previste dalla legge sulla stampa 47 del 1948 e dall’articolo 595 del codice penale, quello sulla diffamazione appunto, finendo per equiparare la figura della blogger a quella di un direttore di testata. Un’impostazione che stride con quella che la corte di Cassazione dava nel luglio 2010 con la sentenza 35511, dove si leggeva chiaramente:

né con lo legge 7 marzo 2001 n. 62, né con il già menzionato D.Lsvo del 2003, è stata effettuata la estensione della operatività dell’art. 57 cp dalla carta stampata ai giornali telematici, essendosi limitato il testo del 2001 a introdurre la registrazione dei giornali on line (che dunque devono necessariamente avere al vertice un direttore) solo per ragioni amministrative e, in ultima analisi, perché possano essere richieste le provvidenze previste per l’editoria (come ha chiarito il successivo D. Lsvo). 
Allo stato, dunque, “il sistema” non prevede lo punibilità ai sensi dell’art 57 cp (o di un analogo meccanismo incriminatorio) del direttore di un giornale on line”.

A maggior ragione l’articolo 57 del codice penale non potrebbe valere per un blogger, soprattutto se non esercita alcun filtro sui commenti che arrivano sul suo blog (come nel caso in questione). Tanto che in precedenza anche direttori responsabili sono stati assolti in situazioni analoghe. Il caso più noto è quello dell’ex direttore dell’Espresso online Daniela Hamaui; nella sentenza si leggeva che il commento che l’aveva portata in tribunale “non era un commento giornalistico, ma un post inviato alla rivista da un lettore, automaticamente pubblicato, senza alcun filtro preventivo”.

Tra le motivazioni della sentenza di Varese si legge, invece:

Quanto all’attribuzione soggettiva di responsabilità all’imputata, essa è diretta, non mediata dai criteri di cui agli artt. 57ss. c.pen.; la disponibilità dell’amministrazione del sito Internet rende l’imputata responsabile di tutti i contenuti di esso accessibili dalla Rete, sia quelli inseriti da lei stessa, sia quelli inseriti da utenti; è indifferente sotto questo profilo sia l’esistenza di una forma di filtro (poiché in tal caso i contenuti lesivi dell’altrui onorabilità devono ritenersi specificamente approvati dal dominus), sia l’inesistenza di filtri (poiché in tal caso i contenuti lesivi dell’altrui onorabilità devono ritenersi genericamente e incondizionatamente approvati dal dominus).

Non è certamente idonea a escludere la responsabilità penale dell’imputata la clausola di attribuzione esclusiva di responsabilità agli autori dei commenti contenuta in un “regolamento” di natura esclusivamente privata per l’utilizzazione del sito (gli autori, semmai concorrono nel reato, ma di essi in questo processo non vi è traccia di identificazione, né sono imputati)”.

In pratica, sembra dire il tribunale, che tu sia direttore di una testata registrata o tu sia un blogger, e che nello specifico tu abbia un filtro o meno sui tuoi contenuti è indifferente: se c’è una diffamazione sul tuo sito, da qualunque parte venga, sei responsabile della diffamazione. E in più senza che risulti imputato l’autore materiale del commento incriminato. Uno scenario che farà tremare le vene ai polsi di chi riceve decine di commenti ad ogni post che pubblica e sembra disegnato sull’“amazza blog”, legge che però, per fortuna, non è mai entrata in vigore.

La corte di Varese (in passato protagonista di una condanna per un blog satirico francese accusato di aver diffamato Renzo Bossi) chiude, inoltre, facendo la morale al sistema:

Le conseguenze sanzionatorie dei reati – si tratta di più azioni, unite dall’identità di disegno criminoso – possono essere contenute, in ragione della giovane età dell’imputata e di una sua possibile sottovalutazione delle condotte illecite, frutto di una diseducazione di cui essa stessa è vittima, in un contesto sociale di falsamente proclamata liceità di qualsiasi lesione dell’altrui personalità morale, tanto più se veicolata dai mezzi di comunicazione, scegliendo la pena pecuniaria e applicando a suo favore le circostanze attenuanti generiche, da ritenersi equivalenti alle sussistenti aggravanti”.

Risuonano gli echi dei recenti dibattiti sulla presunta “anarchia del Web”. Il che rende la vicenda, se possibile, ancora più triste.

 

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Ferrari querela Twitter. E peggiora la sua situazione

Dunque, la conduttrice Rai Paola Ferrari si sente diffamata dagli insulti e dalle “pesanti allusioni fisiche” che alcuni utenti di Twitter le hanno riservato durante i recentissimi Europei di calcio. E annuncia querele. Fin qui tutto legittimo, se non fosse che la querela non è contro gli utenti responsabili dei cinguettii sopra le righe, ma contro l’intera piattaforma. Insomma, Paola Ferrari querela Twitter.

Ecco, un classico caso di professionista che ignora il funzionamento della Rete e quali sono i meccanismi che la governano, soprattutto a livello di regolamentazione del mezzo. Insomma, gli amministratori di Twitter dovrebbero tenere d’occhio ogni singolo contenuto per evitare questo tipo di reati? Ci sono ormai norme e sentenze che esentano da questo tipo di responsabilità gli intermediari della comunicazione online (qui l’avvocato Marco Scialdone).

La Ferrari, non contenta, dice che “in Italia c’è un vuoto legislativo sui social network” e che gli insulti anonimi sarebbero inaccettabili. Anonimi. Su Twitter, dove ognuno è registrato con una account. Al massimo possono essere nascosti dietro un nickname.

Infine, la contromossa della Rete. Come al solito, gli utenti travolgono la reazione stizzita del vip, e #QuerelaConPaola scala in breve le classifiche degli hashtag risolvendosi in un ulteriore danno all’immagine della Ferrari.

Ecco, signora Ferrari, lei ha diritto di tutelarla, questa immagine, ma è proprio in quest’ottica che dovrebbe evitare di dire castronerie su mezzi che, evidentemente, non conosce. In caso contrario, qualcuno la fermi.

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Vasco è permaloso. Peggio per lui

Vasco su FacebookDenunciare per diffamazione un sito che fa satira può risolversi in un bel boomerang, caro Blasco. E forse il cantautore deve averlo capito a sue spese: i gestori del sito Nonciclopedia, che da anni si divertono, facendo il verso a Wikipedia, a presentare improbabili biografie di personaggi famosi, hanno deciso di autosospendersi “ringraziando” in home page proprio il rocker di Zocca. Quest’ultimo non aveva gradito alcuni passaggi della voce che lo riguardava, agendo così per vie legali. E dire che sembrava aver scoperto la Rete prima e meglio di altri colleghi, con le ormai famose clippine su Facebook finite anche nei Tg (non capita spesso da noi, a meno che non si tratti di episodi riguardanti il “lato oscuro” di Internet). Peccato, perché oltre alla reazione di chi non si è limitato a tutelarsi cancellando il testo incriminato, adesso su Twitter appaiono hashtag come  #VascoMerda…

UPDATE 5 ottobre 2011 –Vasco ritira la querela e da Nonciclopedia spariscono le parti peggiori della sua pseudo-biografia. Il sito, così, torna operativo

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Google Suggest: bisogna filtrare

Il Tribunale di Milano ha imposto a Google la rimozione di alcuni risultati del suo servizio di suggerimento durante la digitazione delle chiavi di ricerca. La decisione arriva dopo la denuncia di un imprenditore del settore finanziario, il quale vedeva apparire vicino al suo nome le parole “truffa” e “truffatore”; il Tribunale ha stabilito che la dinamica genera diffamazione: “L’utente che legge tale abbinamento è indotto immediatamente a dubitare dell’integrità morale del soggetto il cui nome appare associato a tali parole ed a sospettare una condotta non lecita da parte dello stesso”. A nulla sono valse le tesi di Google basate su un presunto “utente intelligente” in grado di di interpretare da solo questo tipo di contenuti, situazione che secondo il giudice non ha riscontri effettivi. BigG non è nuova a questo tipo di sentenze (casi analoghi sono successi in Francia,  Svezia e Brasile), ma le garanzie previste dalla direttiva sul commercio elettronico 2000/31/CE (sulla “Responsabilità dei prestatori intermediari”, recepita in Italia dal D.lgs. n. 70/2003 che disciplina i “servizi della società dell’informazione”) sembrano in questo caso vacillare, almeno stando agli argomenti dell’accusa.

Google Suggest

Il risultato infatti è una diretta applicazione di un software messo a punto da Google, che inoltre non solo non ha provveduto all’implementazione di filtri ma ha anche ignorato le precedenti segnalazioni del ricorrente nonché un’ordinanza del Tribunale di Milano del gennaio 2011, contro il quale Google aveva presentato reclamo. Il giudice condanna così BigG al pagamento di 1.500 euro per i diritti lesi e 2.300 per onorari vari e spese legali, dopo aver presentato un’analisi della posizione di Google che risultava così non un mero motore di ricerca ma anche una banca dati; il materiale della suddetta banca dati non è dunque genericamente su Interne ed è inoltre associato proprio dalla funzionalità “Autocomplete” frutto del servizio di Google. In ogni caso il giudice sottolinea come ad esso non si chieda un filtraggio preventivo sui contenuti che emergono dal Suggest/Autocomplete ma di intervenire a posteriori su segnalazione.

UPDATE 7 aprile: il commento di Guido Scorza.

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