Articoli con tag Cassazione
Non siamo clandestini
Pubblicato da Marco Ciaffone in Italia il 11 Maggio 2012
Un blogger non deve registrare il suo spazio online come una testata tradizionale, non è sottoposto a disposizioni della legge sulla stampa come, per dirne una, l’obbligo di rettifica, e la sua “creatura” non rientra tra i prodotti editoriali discilipnati dalla 62/2001. A sancirlo è la Corte di Cassazione, che ieri ha messo la parola fine al procedimento che vedeva imputato il giornalista di Accadeinsicilia Carlo Ruta, che viene ora assolto dal reato di stampa clandestina perché “il fatto non sussiste”. Si scrive così un’importante pagina della regolamentazione della Rete nostrana.
Alla fine del maggio 2011 Ruta è stato condannato dalla prima sezione della Corte d’Appello di Catania per il reato di stampa clandestina, disciplinato dall’articolo 16 della legge sulla stampa (n.47 dell’8 febbraio 1948). Già condannato dal tribunale di Modica nel 2008, Ruta è impegnato in inchieste riguardanti politica e collusioni con la mafia. Era stato citato in giudizio dal procuratore della Repubblica di Ragusa Agostino Fera, che si riteneva danneggiato dai contenuti dello spazio online. A Catania si stabiliva ora che il blog necessitava di una registrazione presso un tribunale perché equiparato ad un giornale cartaceo; in mancanza di registrazione avrebbe dunque operato in clandestinità.
Adesso la Suprema Corte ribalta tutto e cancella una delle spade di Damocle che pendevano sulla testa dei blogger. Restano vive le altre, e la citazione iniziale dell’obbligo di rettifica non è casuale. Vero, ministro Severino?
Lo pseudonimo non è uno scudo
Pubblicato da Marco Ciaffone in Italia il 3 aprile 2012
Utilizzare uno pseudonimo non salva da una multa chi apre una casella di posta elettronica a nome di un altro. A stabilirlo è la Cassazione, che afferma: la “partecipazione ad aste on line con l’uso di uno pseudonimo presuppone necessariamente che a tale pseudonimo corrisponda una reale identità, accertabile on line da parte di tutti i soggetti con i quali vengono concluse le compravendite. E ciò, evidentemente, al fine di consentire la tutela delle controparti contrattuali nei confronti di eventuali inadempimenti”.
Con queste motivazioni la Terza sezione penale ha convalidato una sanzione di 1140 euro per il reato di sostituzione di persona nei confronti di un uomo che aveva utilizzato i dati anagrafici di una donna per aprire a suo nome un account e una casella di posta elettronica, facendo così ricadere sull’inconsapevole intestataria le morosità dei pagamenti di beni acquistati ad aste in Rete.
Inutile il ricorso dell’uomo, che puntava a dimostrare di aver partecipato alle aste con un nome di fantasia e di aver utilizzato i dati della donna solo per l’iscrizione.
Più in generale la Suprema Corte nella sentenza 12479 spiega che rientra nel “reato di sostituzione di persona, la condotta di colui che crei e utilizzi un account di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della Rete Internet, nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese”.
Da blogger a direttore responsabile in un colpo solo. E senza filtro
Pubblicato da Marco Ciaffone in Italia il 8 Maggio 2013
Sei hai un blog e qualcuno inserisce commenti diffamatori sotto un tuo post, che tu abbia un filtro o meno, potresti essere condannato per diffamazione. È la amara conclusione che arriva dal tribunale di Varese, dove una ragazza di 21 anni è stata condannata per la presenza, sul suo diario online, di alcuni commenti ritenuti lesivi dell’immagine della responsabile di una casa editrice.
Il giudice ha deciso di applicare alla giovane le norme previste dalla legge sulla stampa 47 del 1948 e dall’articolo 595 del codice penale, quello sulla diffamazione appunto, finendo per equiparare la figura della blogger a quella di un direttore di testata. Un’impostazione che stride con quella che la corte di Cassazione dava nel luglio 2010 con la sentenza 35511, dove si leggeva chiaramente:
A maggior ragione l’articolo 57 del codice penale non potrebbe valere per un blogger, soprattutto se non esercita alcun filtro sui commenti che arrivano sul suo blog (come nel caso in questione). Tanto che in precedenza anche direttori responsabili sono stati assolti in situazioni analoghe. Il caso più noto è quello dell’ex direttore dell’Espresso online Daniela Hamaui; nella sentenza si leggeva che il commento che l’aveva portata in tribunale “non era un commento giornalistico, ma un post inviato alla rivista da un lettore, automaticamente pubblicato, senza alcun filtro preventivo”.
Tra le motivazioni della sentenza di Varese si legge, invece:
In pratica, sembra dire il tribunale, che tu sia direttore di una testata registrata o tu sia un blogger, e che nello specifico tu abbia un filtro o meno sui tuoi contenuti è indifferente: se c’è una diffamazione sul tuo sito, da qualunque parte venga, sei responsabile della diffamazione. E in più senza che risulti imputato l’autore materiale del commento incriminato. Uno scenario che farà tremare le vene ai polsi di chi riceve decine di commenti ad ogni post che pubblica e sembra disegnato sull’“amazza blog”, legge che però, per fortuna, non è mai entrata in vigore.
La corte di Varese (in passato protagonista di una condanna per un blog satirico francese accusato di aver diffamato Renzo Bossi) chiude, inoltre, facendo la morale al sistema:
Risuonano gli echi dei recenti dibattiti sulla presunta “anarchia del Web”. Il che rende la vicenda, se possibile, ancora più triste.
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